Tutto sbagliato

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    R_21 Cole

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    Sbagliato. Era l'unico termine che riusciva a trovare per quel luogo.

    Era in strada, nella maledettissima strada di una normalissima città, alla ricerca di un rifugio, come era finito ad emergere da quell'acqua?
    La mente dell'androide non era in grado di trovare un senso alla sua situazione. Anche guardandosi attorno non riusciva a spiegare, non riusciva a capire.

    Sbatté le palpebre sentendo il calore interno iniziare ad aumentare, elaborare quel che vedeva stava richiedendo uno sforzo eccessivo alla sua mente fatta di calcoli e logica. Iniziò a prendere respiri più profondi, accelerandone il ritmo per far circolare più aria all'interno dei circuiti.

    Si guardò ancora intorno, il cielo scuro, quei monoliti, le rocce che fluttuavano mentre lui era ben piantato a terra. Strinse la pistola nella mano destra, voltandosi verso l'acqua dalla quale era uscito, allontanandosene velocemente mosso da un “istinto” di conservazione. Non capiva come, ma era arrivato da lì, e se aveva potuto lui, cosa gli diceva che anche qualche eventuale inseguitore non avrebbe potuto raggiungerlo?
    Si mosse con cautela, accovacciandosi per cercare in qualche modo di capire come era arrivato lì, ammesso che ci fosse davvero un come.
    L'espressione neutrale, in così netto contrasto con il respiro, si tramutò man mano in confusione, una delle poche emozioni umane che aveva imparato a riconoscere e riprodurre a modo suo. Una delle poche che il suo sistema simulava autonomamente. Le sopracciglia si aggrottarono, serrò le labbra per poi schiuderle appena mentre osservava la propria mano immergersi nell'acqua e raggiungere in breve il fondo di quella pozza.
    Come? Com'era possibile?

    Fu una conclusione inevitabile, che quel posto non appartenesse al mondo in cui era stato creato fu l'unica spiegazione plausibile che riuscì a trovare, e il termine “plausibile” va inteso in senso lato. Si trattava di qualcosa che non era presente nella sua memoria, nemmeno come informazioni vaghe e generiche, neanche un accenno. Nulla che gli permettesse di spiegarsi quanto lo circondava.
    Non era abituato a una cosa simile.
    C'era sempre stato qualcosa, un'informazione, un ragionamento.
    Ora nulla.

    Si mise nuovamente in piedi, era scalzo, con addosso dei pantaloni color carta da zucchero e una maglia bianca. Abiti comodi dei quali non comprendeva l'utilità. In battaglia erano pratici, utili a camuffarli, ma al di fuori di ciò, a cosa serviva venire umanizzati tra coloro che sapevano perfettamente quale fosse la sua natura?
    Scosse di nuovo il capo e rinsaldò la presa sul calcio della pistola. Era il momento sbagliato per pensare a simili cose.
    Ora doveva anzitutto provare a capire dove fosse.
    Ma da dove iniziare?
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    Il problema coi naufraghi dimensionali era che non apparivano mai nello stesso punto. La vasta distesa d'acqua degli Heaven's Gate era, beh, vasta, appunto, e non è che ci fosse un surplus di personale tatticamente dispiegato ogni quindici metri pronto ad accogliere i malcapitati che giungevano lì. Anzi.

    E quindi, quando si percepiva un'increspatura nella superficie dell'acqua e si avvistava una figura emergere da quello strano specchio liquido multidimensionale, bisognava correre.

    Fortunatamente Astilbe aveva scoperto - con sua piacevole sorpresa - di saper correre davvero molto veloce.

    « Uh, oh, eccoti qui! Mi capisci, vero? Non sparare, sono tuo amico! » Rallentò l'andatura mano a mano che si avvicinava al ragazzo, tenendo anche le mani in alto per non agitarlo più di quanto già non fosse.

    La Gem Doll aveva il suo solito aspetto: i capelli erano una luccicante e tintinnante cascata di gemme preziose che scendevano fino a sfiorare le caviglie, le iridi erano rubini e la pelle era di un candore innaturale, quasi artificiale; la sottile camicia bianca aperta sul petto lasciava intravedere delle grosse macchie rosse e altrettanto luccicanti, come se in quei punti la "pelle" fosse stata grattata, esponendo così alla vista la materia di cui era costituito quel corpo: non carne e sangue, ma pietra preziosa. Solitamente gli umani tendevano a trovarlo bello, o bella: era difficile attribuire un genere a quell'essere.

    « Io mi chiamo Astilbe. » La corsa di poco prima era ormai diventata una cauta camminata. Le mani erano sempre in alto, lo sguardo passava dal volto alla pistola del ragazzo: sapeva cos'era e a cosa serviva, ma sperava vivamente di non dover ingaggiare uno scontro. Nel caso, comunque, avrebbe sempre potuto difendersi con la sua katana che faceva capolino dal fodero portato a tracolla.

    Sfoggiò il suo miglior sorriso amichevole.

    « Sono qui per aiutarti a... Beh, adesso ti spiego. Tu come ti chiami? »
     
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    A modo suo era estremamente agitato. Finito in un luogo a lui estraneo senza un motivo sensato, completamente privo di punti di riferimento e senza sapere se coloro che si era lasciato indietro avrebbero potuto sbucare fuori da quell'acqua. Dall'esterno probabilmente appariva come un umano sull'orlo del panico.
    Era lì, in piedi in quell'acqua troppo bassa per potervi emergere, specie se si era composti di metallo e cavi, per quanto moderni e relativamente leggeri. Quello l'aveva spinto fuori dall'acqua, il timore di affondare e non essere più in grado di emergere. Ma ora era lì, ci stava in piedi in quell'acqua. Non se lo spiegava.

    Preso dai suoi ragionamenti si accorse dell'avvicinarsi di qualcuno in ritardo rispetto alla norma. Sentì quei passi veloci e si voltò in tempo per vedere quella figura rallentare, puntandogli contro la propria pistola senza però sparare.
    Attese il suo arrivo, lo ascoltò parlare, attese di vederlo fermarsi.

    «Non ho intenzione di farlo» sparare senza motivo, per paura, era una reazione umana troppo illogica per un androide, troppo controproducente, soprattutto per un androide difettato e fortemente incapace di empatizzare con gli umani. Se avesse avuto davanti un umano, poi, non avrebbe comunque potuto farlo. Ma quello che aveva davanti non era un essere umano, lo seppe ancor prima di confrontare i suoi parametri con quelli umani in memoria. I capelli altrui, quella pietra visibile dove la pelle mancava. Una creatura diversa dagli umani, come lo era lui, ma anch'essa fatta per rassomigliare il loro aspetto.
    Questa semplice consapevolezza sembrò rilassarlo. Le sopracciglia chiare tornarono alla loro neutralità, sebbene non accennò ad abbassare la pistola, limitandosi a scostare il dito dal grilletto.

    Osservò quel sorriso, il respiro era ancora attivo, profondo come prima, sebbene meno rapido.

    «R...» si interruppe nel parlare, troppo abituato a rivolgersi agli umani, a presentarsi con il proprio codice. Ma lui aveva un nome. «Cole, mi chiamo Cole» se l'era scelto, ora era libero di usarlo.

    «Adesso spiegami che posto è questo, come ci sono finito, e come mi hai trovato. E di certo non sei umano, – fatto assolutamente positivo per Cole - cosa sei?»

    Aveva bisogno di sapere, di colmare quei vuoti che tanto stavano affannando i suoi processori.
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    Cole. Registrò quel nome mentre nella sua mente si faceva sempre più forte la convinzione di avere davanti un vero essere umano, anche se dopo aver conosciuto angeli, vampiri e svariate altre creature che di umano avevano solo l'aspetto - beh, ormai aveva imparato a non gioire troppo presto. Eppure un nome umano, un aspetto umano, vestiti umani e armi umani erano ancora capaci di infiammare l'empatia con la quale era stato programmato.

    « Certo, adesso ti spiego tutto. » Abbassò lentamente le mani, riportando le braccia ad una posizione naturale. « E no, non sono umano. Sono una Gem Doll, una bambola senziente creata dagli umani sulla Terra nel ventitreesimo secolo. » Una punta di amarezza trapelò nel suo tono altrimenti perfettamente calmo: già solo il fatto che Cole non avesse riconosciuto una Gem Doll dal suo aspetto significava che non proveniva dalla sua stessa dimensione, linea temporale o pianeta. Tuttavia, la sua curiosità per la natura e la provenienza di quel Cole avrebbe dovuto aspettare. « Anch'io sono arrivato qui da questa pozza, proprio come te. »

    Prese un lungo respiro.

    « Urðarbrunnr. Così si chiama questo posto. E' una dimensione che esiste al di fuori del Multiverso, o Yggdrasil, come lo chiamano qui. Non chiedermi di pronunciare ancora Uroarb-quellacosalà, quasi nessuno in realtà la chiama così. Per tutti questa è "La Città Biblioteca". »
    « Se sei arrivato qui è perché anche la tua dimensione è stata coinvolta nello sfaldamento del Multiverso. Lo Yggdrasil sta morendo. Persone da ogni dove cadono involontariamente nelle pieghe dello spazio-tempo e giungono qui, in questa dimensione speciale. »
    A quel punto fece un cenno verso l'acqua sottostante.
    « Sapevo dove trovarti perché... beh, questo fenomeno succede sempre più spesso. »

    Si fermò, attendendo una reazione. Erano abbastanza informazioni traumatiche come primo approccio: avrebbe lasciato la parte del "non si può tornare indietro" per dopo.
     
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    Era proprio quella la sensazione che doveva suscitare. Apparire umano per mescolarsi tra coloro che vivi lo erano sul serio, e al contempo far leva su quel minimo di empatia che in battaglia si poteva avere per i propri simili tra i nemici. Questo agli androidi non era concesso, quel desiderio di non colpire i propri simili, non aveva mai avuto l'occasione di realizzarlo.

    Lo guardò abbassare le mani, la pistola ancora puntata contro di lui fin quando non gli venne spiegato cosa esattamente fosse l'altro. Contrariamente ad Astilbe, per Cole era proprio la natura inumana di chi aveva di fronte a far scattare in lui una parvenza di empatia, se così si poteva chiamare.
    Il respiro rallentò un poco, parte del vuoto nei suoi dati venne colmato, permettendo ai processori di affaticarsi meno. Non conosceva le Gem Doll, nel suo tempo forse erano ancora solo un'idea, di certo qualcosa che a un androide non doveva interessare, una conoscenza inutile per una macchina.

    «Sei anche tu un giocattolo degli umani» abbassò la pistola, in un certo senso lo percepiva come affine, un'altra creazione umana, seppur con scopi diversi.

    In quel momento non si soffermò comunque troppo sull'argomento, aveva ancora vuoti di informazioni da riempire, e in quanto macchina, in assenza di dati da confrontare non gli rimaneva altra scelta che accettare quelle informazioni come vere.
    Il respiro rallentò ancora, quella quantità di informazioni fu quasi una benedizione per una mente come la sua, stava ricevendo dati per colmare i vuoti che la realtà di quel luogo presentava. Quel luogo ora aveva un nome, anzi due, si trattava di una dimensione diversa, quindi era accettabile che funzionasse in maniera diversa. Anche il concetto di multiverso fu accettabile per la mente dell'androide, non conosceva dati che negassero tale possibilità, non era in conflitto con le sue informazioni, dati puramente oggettivi, niente credenze, niente fede, niente convinzioni.

    «Hai detto che qui ci si arriva involontariamente. Vuol dire che nessuno può seguirmi?» guardò quell'acqua, l'idea di non poter essere seguito lo tranquillizzava. Questo tuttavia poneva nuove domande, «Quindi sono arrivato qui tramite cosa? Un portale? Non si può raggiungere volontariamente questo posto?» Aveva dubbi anche sul come andarsene via, ma al momento quel luogo era per lui più sicuro della propria “casa”. La cosa priorità era essere sicuro di non ricevere spiacevoli sorprese, di non essere trovato e distrutto, o peggio ancora, resettato.
    Le iridi dal colore chiaro e freddo tornarono sulla Gem Doll, il respiro ormai era lieve, ma ancora non poteva disattivarlo del tutto. I processori stavano elaborando quelle informazioni, ora che quei vuoti erano stati colmati doveva organizzare le informazioni, catalogare ciò che aveva appreso. Un lavoro di background che richiedeva comunque un minimo di fatica.
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    Come, "anche tu"?

    « Io... uhm, sì? Cioè, anche tu sei stato creato dagli umani? » L'espressione calma s'incrinò in una smorfia confusa. Avrebbe accettato - seppur con una certa delusione - che Cole fosse uno dei tanti esseri simili agli umani solo nell'aspetto, ma che fosse una creazione degli stessi? Questa era nuova.
    Lo guardò abbassare la pistola. Ora era più curioso che mai: perché un prodotto degli umani se ne andava in giro con un'arma del genere? Sicuramente per proteggerli, pensò la sua mente plasmata per tutelare i suoi creatori. Ma perchè progettare qualcosa di così simile al loro aspetto naturale? Nel suo mondo sì, esistevano dei robot con lo scopo di rendere più facile la vita degli umani, anche in campo bellico, ma non si avvicinavano minimamente al livello di bellezza ed intelligenza artificiale delle Gem Doll. Cole era una novità.

    Perso com'era nel suo mare di pensieri, ci mise qualche secondo a formulare una risposta alle successive domande.

    « Da quanto mi è stato detto, una volta era possibile viaggiare qui attraverso dei portali dimensionali. Poi è successo qualcosa, un evento che nessuno sa spiegare, e questo posto è rimasto isolato dal resto dello Yggdrasil. Nessuno poteva entrare né uscire, fino a poco tempo fa... quando il multiverso ha iniziato a morire. »

    « Da quel momento le persone hanno inziato ad arrivare qui, come se questo fosse il fondo di un vortice che risucchia i pezzi rotti del multiverso. O un "pozzo" posto sotto all'Albero della Vita, come lo definisce Nidhogg. »

    « Non so se sei arrivato qui con un portale. Ti ricordi di aver attraversato un portale? Alcuni stavano facendo qualcosa di strano prima di essere risucchiati - riti occulti, sperimentazioni scientifiche o quant'altro - altri si stavano semplicemente facendo i fatti propri. Il fatto è che i portali non sono una scienza esatta: possono avere le più diverse forme, possono aprirsi e chiudersi improvvisamente, potrebbero anche essere invisibili, o spostarsi. Insomma- » fece spallucce « -è impossibile stimare una percentuale di possibilità che qualcos'altro, o qualcun'altro arrivi dalla tua stessa dimensione, ma posso dirti che finora non è mai successo. Siamo arrivati tutti... soli. »

    Nel dire quell'ultima parola lasciò cadere lo sguardo alla pozza di acqua scura. L'espressione assunse una nota profondamente malinconica, e per un attimo sembrò quasi che qualcosa di liquido avesse attraversato le iridi di gemma rossa dei suoi occhi. Ma era impossibile: le Gem Doll non potevano fisicamente piangere.

    « Probabilmente l'avrai già intuito. » Non sollevò lo sguardo. « Ma allo stato attuale non è possibile lasciare questo posto. »
     
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    Osservò la smorfia sul volto altrui riconoscendone la confusione, era una delle poche emozioni umane che aveva visto abbastanza spesso – solitamente rivolta a lui – da apprenderla.

    Rispose con un cenno del capo alla domanda altrui, l'espressione neutrale immutata sul volto, forse lievemente più gentile di come sarebbe stata se avesse avuto davanti un umano.
    «Sono uno dei loro soldatini. Un androide creato e programmato per obbedire, combattere e... morire - per così dire - per gli umani» pronunciò il nome di quella razza con una punta di disprezzo, non aveva una buona considerazione di loro.

    Lo lasciò ai suoi pensieri, guardandolo, osservandolo e registrando nella memoria ogni dettaglio che riusciva a notare. Registrò i capelli, il loro colore, la forma del volto, la struttura fisica, quelle chiazze che interrompevano la superficie della pelle. Ogni informazione era importante, ogni dato che poteva raccogliere era conoscenza in più a cui poter attingere.
    Ascoltò la sua spiegazione con attenzione totale, accogliendo le sue parole senza metterle in dubbio, privo di qualsiasi dato contrastante.

    «Non lo so, stavo entrando in un edificio e mi sono ritrovato a uscire dall'acqua. Anche se l'interno della struttura sembrava sbagliato...» non specificò che stava fuggendo dopo aver tentato senza successo di sparare a un umano.
    Sapere che nessuno finora era arrivato dalla stessa dimensione di qualcun altro però lo tranquillizzò, sebbene parve avere un effetto diverso su Astilbe. Assottigliò appena lo sguardo, incapace di riconoscere l'origine di quell'espressione che l'altro aveva assunto. Era in grado di intuire solamente la categoria generale alla quale apparteneva.

    «Questo ti fa stare... male?» doveva capire, sapeva che la sua incapacità di empatizzare era ciò che lo rendeva diverso dagli altri androidi, al contempo però era qualcosa che a volte creava problemi e a cui doveva in qualche modo rimediare.

    Annuì poi, immaginava che non potendo arrivare lì volontariamente, era probabile non si potesse nemmeno andar via di lì per scelta. Le parole della Gem Doll però, lasciavano intendere chiaramente che al momento non c'era alcun modo di andarsene, punto.
    Tuttavia questo non costituiva un problema attualmente, non per Cole
    «Se anche tornassi verrei sicuramente distrutto.» sollevò la mano e abbassò lo sguardo verso la pistola, serrando le labbra prima di tornare a parlare «Per come stanno le cose ora, per me è meglio rimanere qui» meglio dell'alternativa.
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    Un soldato artificiale, quindi. Aveva senso, anche se il disprezzo con cui Cole pronunciò la parola umani lo lasciò nuovamente confuso. Sembrava mancare in lui quella componente di affezione incondizionata che era invece alla base di ogni Gem Doll. Anche se, in effetti, ciò poteva essere dovuto proprio a causa della natura del suo... scopo.
    Erano simili, eppure diametralmente opposti.

    «Questo ti fa stare... male?»


    « Un po'. » Risollevò lentamente lo sguardo. « Mi manca la compagnia degli umani. » Omise volutamente il fatto di non avere praticamente nessun ricordo della sua vita prima dell'arrivo alla Città Biblioteca, ma sentiva sinceramente e profondamente la loro mancanza. Non era tuttavia sicuro che fosse una nostalgia rivolta alla razza umana in generale - sterilmente programmata e insita nelle sue cellule -, o al suo ex-stile di vita, o... a un essere umano in particolare. Con tutto quello che era successo non aveva ancora avuto modo di fermarsi a riflettere su sé stesso, e di certo non era il momento di farlo adesso.

    « Oh. Capisco. E... se posso chiedere, perché avrebbero voluto distruggerti? » Non era una domanda inquisitoria, anche se poteva sembrarlo. Rendendosene conto si affrettò ad aggiungere:
    « Cioè, se hai un difetto di fabbricazione o qualche parte da sostituire, qui abbiamo una specie di "ospedale" » fece le virgolette con le dita di entrambe le mani « con degli """scienziati""" » ricalcò con maggior enfasi altre virgolette « provenienti da un sacco di dimensioni diverse, e ci sono tipo tantissimi libri, insomma, sicuramente c'è qualcosa di utile anche per... te..? » Non aveva la minima idea di cosa stava blaterando, ma si dispiaceva al pensiero che Cole venisse distrutto. Le Gem Doll, create per essere fortemente in sintonia con gli umani, non avevano un'accettazione così logica e distaccata nei confronti della Morte come invece potevano averla altri tipi di intelligenze artificiali.
    Il suo era un approccio decisamente anomalo per un essere artificialmente creato, molto più umano.
    Quasi materno.
     
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    In lui mancava una componente che invece avrebbe dovuto esserci eccome. Ogni androide durante la sua esistenza apprendeva automaticamente a riconoscere e simulare le emozioni umane. Cole no. Qualcosa aveva bloccato quell'automaticità, per lui apprendere e comprendere la sfera emotiva di qualsiasi altro essere era un esercizio costante, doveva studiarla come si studierebbe una materia scolastica. Solo così diventava realmente una parte di lui.
    Cole aveva appreso col tempo perché gli umani li avevano programmati in quel modo; comportarsi come umani, sembrare umani, rendeva più facile la collaborazione, dava agli androidi una motivazione per proteggere i viventi, qualcosa che andava oltre la direttiva registrata nel sistema. Li illudeva di avere scelta, impedendo loro di diventare... come Cole.

    Quando la sua domanda ottenne risposta fu il turno di Cole di mostrarsi confuso.
    «Ti mancano sul serio? Perché?» Sentire la nostalgia per creature come gli umani era inimmaginabile per lui, esseri egoisti che avevano progettato delle macchine in grado di sperimentare le loro stesse emozioni, per poi mandarle a morire al loro posto, tutto solamente per sentirsi a loro agio in presenza degli androidi.
    Il disprezzo era forse l'unico sentimento che si potesse considerare vagamente come spontaneo. Una volta comprese le cause scatenanti, se le era trovate intorno ogni giorno, se ne era nutrito, le aveva assorbite, registrate, e il suo sistema aveva cominciato a elaborare. Era stato uno studio più pratico che teorico, ecco.

    «Non ho nessun difetto» fu la risposta secca che diede all'altro. Nel dirlo le sopracciglia si erano aggrottate un poco, fu il massimo di rabbia che riuscì a manifestare, nulla a che vedere con l'urlo che aveva rivolto a quegli uomini. La rabbia era qualcosa di difficile, aveva compreso che quel sentimento richiedeva un fattore scatenante, più debole era quel fattore, meno forte era la risposta del suo sistema.
    La ragione di tale legame però faticava ancora a afferrarlo.

    «Sono libero. Ecco il motivo.» beh, quasi libero, il blocco era ancora lì. Scoprire questa verità si che era stato un fattore scatenante potente. Estremamente.

    Sospirò un'ultima volta prima di bloccare il respiro, non c'erano più vuoti importanti nei suoi dati, quai nulla a far lavorare i processori.
    «Non possono più programmarmi, né darmi ordini.» nuovamente calmo e neutrale nel parlare «Non tornerò indietro» non sarebbe tornato ad essere un bravo soldatino.

    «Ma voglio capire cosa è stato a rendermi così. Questi... “““scienziati””” di cui parli – con la mano libera dalla pistola ripeté anche il gesto compiuto dall'altro, quelle virgolette – Potrebbero aiutarmi a scoprirlo.»

    Rimase in silenzio alcuni istanti poi, ragionando.
    Ora serviva gentilezza. Fece un passo avanti

    «Vorrei che non dicessi a nessuno della mia natura. Se cercassero di riprogrammarmi non glielo permetterei, quindi verrei distrutto. O potrebbero decidere di distruggermi e basta.» stava calcando un po' la questione, ma per quanto ne sapeva sarebbe potuto accadere davvero.

    «Non voglio essere distrutto. Non ora.»
    Il tono era ancora neutrale, ma leggermente più leggero. Aveva sentito alcuni medici parlare così a umani in punto di morte. Loro avevano palesemente mentito, eppure erano stati creduti; lui era in fin dei conti sincero, stava cercando di fare leva sull'apparente apprensione altrui, ma davvero non voleva perdere quel che aveva appena ottenuto.
    Voleva essere del tutto libero, anche di scegliere chi ferire e chi proteggere.
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